di Giorgia Vezzoli
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Danzate. Perché il tempo di battere sul mondo è questo. Danzate. Perché saper scalare le ceneri della storia per salire nei cieli dell'utopia oggi non è fuga, ma urgenza. Danzate. Perché l'estate è sangue e terra. E' fuoco e cielo che non risparmia. Ed è già qui. Su questi piedi scalzi.
La nuova era
Sono negli impeti di chi si dà voce
e non delega, non pospone, non spera,
ma si afferma.
Sono nel grido gioioso dell’umanità
stupita della propria bellezza.
Sono dove è la coscienza,
e dove questa si oppone all’interesse
di coloro che non per merito, non per coraggio,
né per illuminazione
furono assunti a governare questa civiltà.
Sono nel desiderio di osare
e di ricercarsi oltre misura.
Sono dove ogni cosa è una e molteplice,
scomposta nelle differenze,
congiunta nel tendere unanimemente
alla dignità.
Sono nelle parole che non narrano di uomini,
né di donne
ma di anime generate dal medesimo palpito creativo.
Io sono l’era dell’Incanto.
E con gli sguardi di chi mi percepisce
investo la disattenzione di chi non mi crede possibile.
Poiché sono una donna
Poiché sono donna, nessuno, più di me,
conosce il silenzio del tempo che muta,
le parole del conforto, il dolore dell’abbandono.
So della caducità della vita e dell’illusione dell’apparenza,
ma intuisco più di altri l’eternità
di un gesto compiuto nella bellezza.
Poiché sono donna,
porto su di me il peso dei reietti,
e di tutti coloro che in ogni epoca furono emarginati.
Sul mio viso si scorgono ancora
le sofferenze delle donne che mi hanno preceduto.
Nel mio grembo, la pienezza di tutte coloro che hanno procreato.
Poiché sono donna, so cos’è il dono.
E ho imparato, nel tempo, a vivere nella sua dimensione.
Raramente sono stata ascoltata, più spesso osservata
con brama, con sospetto, con disprezzo,
con risoluta indifferenza.
La mia voce dice di voci mai considerate.
La mia penna di menti che, per loro natura e per la propria diversità,
non sono state comprese.
Poiché sono donna sogno,
e sognando sperimento l’esistere di differenti nature.
Nella mia complessità nutro in silenzio
il seme del caos da cui proveniamo
e che non potrò mai, poiché sono una donna,
fingere di non aver avvertito.
La mia religione
La mia religione non crede, ricerca.
La mia religione non compie riti,
ma vive ogni manifestazione d'amore come una celebrazione dell'esistere.
La mia religione non ha dogmi, perché si mette in discussione.
La mia religione non ha mai cercato di imporsi, di convincere,
di persuadere.
La mia religione non pretende di essere migliore,
ma ama tutte le forme di diversità.
La mia religione non ha gerarchie, perché considera tutti gli uomini di pari importanza.
La mia religione non offre guide né maestri,
ma da valore agli esempi.
La mia religione non ha mai preteso di diventare legge,
né ha mai cercato di influenzare la legge secondo la propria visione della vita.
La mia religione non ha potere.
La mia religione non ha un nome perché, se l'avesse, qualcuno potrebbe volerla seguire.
E non sarebbe più libera.
La mia religione non insegna,
se non a vivere nella sua assenza.
Il fiore dell’incomprensibile
E’ mistero la profondità della coscienza,
l’origine di ciò che avvertiamo come mancanza,
l’immensità che, a volte, si sofferma.
E’ mistero la goccia che ci colpisce
prima di accorgersi che è solo acqua.
Io sto nel mistero
perché qui è il compito che mi sono assegnata.
Sto qui perché qui è duro, arido, ambiguo,
senza scorciatoie
che illudano di aver compreso.
Sto dove ho perso
e avuto timore di corrompermi
mentre di me ricercavo l’essenza.
Io sto nel mistero
perché il mistero non è qualcosa in attesa di essere svelato
ma il fiore stesso dell’incomprensibile,
dove tutto è abbandono
e la fatica si scioglie nel silenzio.
Sotto assedio
Il dolore non ci appartiene.
Il dolore è una lingua di fuoco che ci colpisce
per rammentarci di coloro che non possono liberarsene,
la piaga che ci congiunge con chi lo subisce, in silenzio,
lontano dal nostro vociare.
Sul filo del dolore io vivo
una serenità sotto assedio,
con la gioia che si scolora appena voltato l'angolo
nell'orrore che qualcuno, in quell'attimo,
sta sopportando.
Il dolore non ci appartiene,
ma noi apparteniamo a coloro che lo patiscono.
Non al potere, ma a chi lo nutre
Il potere è tale solo se al suo cospetto
si radunano le nostre intelligenze.
Non inchinate i vostri talenti a quanti
li consumeranno per il proprio gozzoviglio.
Non mercificate di padrone in padrone
ciò che non può essere passato di mano in mano.
Non permettete che i compromessi
smarriscano il confine fra la necessità di sopravvivere
e la cupidigia di accumulare a discapito dell'altro.
Se di rado è possibile decidere del proprio talento,
sempre si può scegliere il limite entro il quale sottometterlo.
In un mondo dove ciascuna eccellenza si offrisse
non al servizio dell'uno ma dell'umanità tutta,
il potere perderebbe la radice del proprio sostentamento
in favore di una diffusa possibilità di esistere,
che voi negate,
sovente a voi medesimi.
La congiura
Io credo in una congiura intellettuale e politica nei confronti della poesia
che non è il frutto della moda o dell’ignoranza
quanto piuttosto di chi consapevolmente massifica i gusti
verso una cultura compiacente al potere e priva di interrogativi,
che la poesia, per sua natura, produce in abbondanza.
Io credo che la poesia sia scomoda
perché testimone della possibilità di altro, di diverso,
di quell'inafferrabile oltre che si manifesta anche in assenza di dio,
di miracoli o di eroi che ci sollevino dalle nostre personali responsabilità.
Io credo che da anni sia in atto un sistematico disfacimento
della poesia in ogni sua forma espressiva
per timore di ciò che la poesia comporta:
la ricerca,
che a lungo andare conduce alla coscienza
Senza rispetto
Mi prostituisco ogni volta che mi disperdo,
soffocandomi in pensieri plasmati alle lingue di turno.
Mi prostituisco ogni volta che mi do un contegno
per carpire un sorriso, un consenso, un magro stipendio.
Mi prostituisco ogni volta che taccio al disgusto.
Mi prostituisco ogni volta che parlo e non mi distinguo
perpetrando un senso
dove il bene si perde in ciò che gli è verosimile
e il male tinge di rosa l'oscenità della propria radice.
Perché il linguaggio è la puttana di chi lo usa senza rispetto,
mentre chi lo ama
non sogna più un nuovo mondo
ma parole nuove che ne raccontino la menzogna,
da confidarsi muti, di sguardo in sguardo.
Nessun altrove
Rimpiango la lentezza delle anime che non ho mai assaporato.
A volte risalgono alla mia coscienza, affamate,
a riprendersi lembi di spazi non concessi
dalla voracità della mia ragione, dalla bramosità del mio io.
Ho percorso con lo sguardo strati spessi di menzogna
sino a scorgere il seme degli occhi che ho incontrato.
Ho più spesso preferito consumarlo con i miei entusiasmi,
con le mie seduzioni, con i miei implacabili squarci.
Ho concesso. Ho ferito.
Ho abbandonato.
Di tutto il dolore causato, non rimpiango
quello procurato con l'ira incauta di chi ha ricercato, sgarbatamente,
l'autenticità.
Soprattutto non rimpiango il conflitto,
quando ciò sia servito a partorire anche un solo piccolo foro
nel muro di chi ha preteso di imporre a se stesso e al mondo
la propria verità.
Non credo ai profeti.
Non credo a chi pretende di incarnare più di altri l'infinito,
ma rispetto chi sconta della propria anima l'infinità
con un'esistenza all'orlo dello sfinimento,
come gli artisti che arrancano,
come gli amanti che non si curano.
Non desidero l'equilibrio
ma un armonico vivere nella sua assenza
e a nessun dio, costruito sull'affanno,
offrirò mai il sacrificio di me stessa
per un altrove felice.
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